DELL'INDIPENDENZA DEI COMUNICATORI, ANCHE DETTA 'LIBERTÀ DI STAMPA'

 



Nell'Indice della Libertà di Stampa 2025 di Reporters sans Frontières (RSF), l'Italia è scivolata al 49° posto, dal 46° del 2024, e la situazione globale italiana è stata definita "difficile". 
Poco più bravi di noi l'Armenia, la Moldavia, il Costarica, Montenegro, la Slovacchia, Timor Est, le Figi, il Gabon, la Macedonia del Nord, la Republica Dominicana, Samoa, le Seychelles, Tonga, il Belize, solo per fare alcuni esempi.

Molto ma molto più bravi di noi, sempre a titolo esemplificativo e non esaustivo, la Norvegia, i Paesi Bassi, la Svezia, la Danimarca, il Regno Unito, la Germania, l'Irlanda, il Lussemburgo, il Portogallo, il Belgio, il Canada, la Francia, l'Austria, la Spagna, e tanti altri.

Gli editori, i proprietari dei media.

Quasi più nessuno nasce editore. Né digitale né di carta stampata, né di radio o di tv.
Le aziende di comunicazione vengono sempre più spesso acquistate da chi i danè li fa, o li ha fatti, con altri mestieri. E abbastanza spesso il profitto che vuole ricavarne non si misura in Euro, o Dollari, ma in qualcosa meno palpabile, ma decisamente più prezioso: consenso, opinione pubblica, prestigio, capacità di divulgare notizie (fa niente se vere o false, l'importante è che servano, ad attaccare o a difendersi, dipende dai casi, dal momento).
Questo aspetto problematico della proprietà malata degli strumenti di diffusione delle comunicazioni può essere risolto. Abbiamo un esempio [e magari ne esistono altri che non conosco] nel britannico The Economist, il periodico con 1,6 milioni di lettori, più della metà dei quali in America settentrionale, decisamente buono quanto ad indipendenza. 
La governance del The Economist prevede, oltre al Board of Directors [il Consiglio di Amministrazione], un Board of Trustees [un Consiglio di Amministratori Fiduciari che ha il compito di assicurare l'integrità e l'indipendenza editoriale, in linea con i valori fondanti del periodico].
In parole povere, i proprietari non hanno [non possono avere]  alcun contatto con i giornalisti del periodico e non possono interferire nella linea editoriale; possono solo chieder conto dei loro investimenti nelle pochissime riunioni a cui sono invitati dal BoD, ma non possono assumere né licenziare, e se e quando vogliono vendere le loro azioni il potenziale acquirente deve essere gradito agli altri soci e al Board of Trustees. Tutto ciò perché l'indipendenza sia garantita.


La pubblicità.

I ricavi dei media non sono più garantiti, ormai da anni, dal prezzo del quotidiano o periodico cartacei,  o dai canoni radio o tv, o dei media digitali, ma, per la gran parte, provengono dalla pubblicità, un settore che dovrebbe chiudere il 2025, in Italia, con un fatturato di oltre 14 miliardi di euro, 10 dei quali vanno ai media (4,3 TV, 1,1 stampa e 4,6 Internet). 
Ovvio che l'utilizzo di questi 10 miliardi, se non regolamentato, fa il bello e il cattivo tempo nel mondo dei media italiani. Li compra, li corrompe, li svuota di contenuti seri, di cultura, di civiltà, e li riempie di vuoto cosmico. E l'indipendenza, che ne dovrebbe caratterizzare l'esistenza, è in via di rapida estinzione.
Sul mondo della pubblicità e sulla necessità di regolamentarlo è inutile dilungarsi oggi. Né ho scritto tante volte, ed altrettante ne scriverò.


L'Ordine dei giornalisti.

In Italia non funziona, non garantisce la professionalità dei suoi membri né il loro rispetto della deontologia professionale. Né, quindi, la loro indipendenza.

Nella maggior parte dei Paesi che si trovano ai primi posti della classifica dell'indipendenza e libertà di stampa l'ordine dei giornalisti non esiste.

Il Regno Unito aderisce ad un sistema di liberismo assoluto, dove la regolamentazione della professione è minima e si basa principalmente sull'autoregolamentazione.

In Germania la professione giornalistica è garantita dalla sua indipendenza, e non è soggetta ad un sistema di iscrizione obbligatoria ad una associazione professionale, che esiste, ma che è in realtà un sindacato di quei lavoratori del settore che ci si vogliono iscrivere.

Negli Stati Uniti d'America non esiste un albo obbligatorio; la professione è regolata da leggi sulla libertà di stampa [shield laws] e dall'adesione a codici etici auto-regolamentati. Ma significativo è il fatto che sono i media americani ad annunciare chi ha vinto le elezioni presidenziali, e non un organo federale. La proclamazione viene fatta da Associated Press, CNN, NBC, ABC e dagli altri grandi network. Ciò non è scritto in una legge, ma funziona così da più di cento anni, e significa che il popolo ha fiducia nell'indipendenza dei media, tant'è che li chiama 'watch dog' [cani da guardia], che vigilano, per conto dei cittadini, sull'operato dei politici.

In Norvegia e Svezia [rispettivamente al 1° e al 4° posto dell'Indice libertà di Stampa di cui sopra] tutti possono esercitare la professione, senza un sistema di iscrizione obbligatoria ad un albo.

Credo che l'unica soluzione del problema, che in Italia indubbiamente esiste, della dipendenza della comunicazione dai poteri forti, sia la più assoluta deregolamentazione nell'accesso a tutti i settori della Comunicazione [autori ed editori], i cui operatori debbano rispettare le leggi generali vigenti, con l'unica particolarità che gli eventuali casi giudiziari avranno un percorso privilegiato che porti alla conclusione del procedimento [sentenza definitiva] entro 6 mesi.

Chiedo troppo? 

Viviamo nell'era della Comunicazione, dell'Immagine, del Sembrare più che dell'Essere, e dobbiamo regolamentare queste novità.

Ma non dobbiamo inventarci niente di nuovo. Abbiamo più di 2000 anni di Civiltà e di Diritto con cui proteggerci.


Buon fine settimana a tutti.



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