ITALIA ANNI '70, VOGLIA DI CAMBIAMENTO.
49 anni dopo quella Pasqua del '72.
Le domestiche si chiamavano serve, e come tali venivano
trattate. Spesso meridionali, ma a volte anche friulane, o di quel veneto dei
paesini dolomitici, dove ancora non era arrivato il turismo di massa e i
quattrini.
Serve, come i servi della gleba; a mille chilometri da
casa, parlavano il dialetto stretto dei loro paesi, erano state portate sù (o
giù) dai sensali, che le allocavano presso famiglie facoltose, dove avevano
vitto e alloggio, e guadagnavano poco, e la metà di quel poco, per i primi tre
mesi, andava al sensale, e dal quarto in poi veniva spedito alle famiglie di
provenienza.
Accettavano quel loro stato come indiscutibile ed
incontrovertibile; non riuscivano a concepire una vita diversa, non riuscivano
nemmeno ad immaginare che avrebbero potuto cambiare la propria esistenza,
credevano davvero che i loro datori di lavoro, che chiamavano padroni,
nascessero con quei diritti a loro preclusi; non sapevano ancora che la nobiltà
non era qualcosa che si ereditava, ma una condizione dell'anima.
Quello che era chiamato il '68, e da noi arrivato
un anno dopo, in realtà nacque da una intuizione non loro, non dei contadini e
degli operai sfruttati, ma, paradossalmente, dei giovani figli degli
sfruttatori. Fummo noi ragazzi, studenti fineadoloscenti, ragazze e ragazzi,
nemmeno, ancora, donne e uomini, ad avvertire queste discrasie, incoerenze,
disarmonie, incongruenze; e in breve tempo imparammo a chiamarle ingiustizie;
dalla consapevolezza delle ingiustizie scoprimmo la giustizia, ed infine la Giustizia
Sociale.
Ovvio che in altri tempi ed in altri luoghi tutto ciò era
già accaduto; la rivoluzione francese era scoppiata centottanta anni prima! E
forse non a caso il '68 nasce proprio a Parigi, a maggio di quell'anno, prima
di arrivare in Italia e nel resto d'Europa.
Ed è altrettanto vero che l'inizio vero e proprio dei
grandi cambiamenti fu antecedente. Please please me e She loves you, dei
Beatles, sono del '63, e loro suonarono a Roma, all'Adriano, con Peppino di
Capri e Fausto Leali, nel '65 (e nemmeno fecero il pieno!).
Furono anni figli dei grandi cambiamenti culturali prima,
e sociali dopo. La letteratura cominciò con cambi di rotta e punti di vista
decisamente nuovi: Solzenicyn scrive Arcipelago Gulag, e Divisione Cancro nel
'67, firmandoli Anonimo sovietico. Una traduzione di Divisione Cancro arriva in
Italia (da Il Saggiatore) alla fine del '69. Nel '70 Solzenicyn prende il Nobel per la
letteratura; non eravamo in molti ad aver letto Divisione Cancro (aveva venduto
meno di diecimila copie!), ma chi, come me, l'aveva fatto, faceva lo sborrone e
fingeva di sapere tutto sul premio Nobel sovietico.
Italo Calvino pubblica, nel '70, Gli amori difficili;
Mario Soldati L'attore.
Poi cominciano ad arrivarci i drammi teatrali di Beckett,
tradotti da Carlo Fruttero.
Nelle arti e nell'architettura, da letteratura, teatro,
musica e filosofia, arrivò il postmodernismo, lo scetticismo metafisico, il
nichilismo.
Insomma, un vento forte, una tempesta di musica, di
letteratura, di arti, di pensieri, che arriva prima di tutto agli studenti, a
cui non sembra vero farsi interpreti dei cambiamenti, complici -ça va sans
dire- le occupazioni di scuole superiori ed università (penso siano
state, per tante ragazze e ragazzi, le prime notti trascorse fuori casa!).
Indossavamo jeans, maglioncini collo alto, camicie collo
coreano, stivaletti, eskimo con cappucci tirati su, tascapane di tela, e
portavamo capelli lunghi fino al collo; le ragazze non indossavano le calze di
nylon come le !oro madri, ma calzetti corti e sandali, o scarpe da ginnastica;
e golfini aderenti che facevano risaltare i seni, e minigonne zeropassera, o
tuniche e camicioni, e fasce e bandane, e anche loro zainetti o tascapane; e
già solo l'abbigliamento era rivoluzione.
Giravano un sacco di chitarre, ma pochi chitarristi veri.
La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze con !a chitarra non andavano più
in là dei giri armonici che servivano all'accompagnamento; ma erano sufficienti
a cantare le parole delle canzoni, e quelle erano toste davvero. Tant'è che
ancora, dopo mezzo secolo, emozionano.
Sapevamo -da Marcuse- che sarebbe stata l'analisi del
meccanismo repressivo della sovrastruttura borghese a renderci consapevoli del
controllo di classe del sistema, che ci violenta, a cui avremmo dovuto
opporci, con una azione parimenti violenta, noi studenti, insieme alla classe
operaia.
Di fronte a tutte quelle novità non si poteva fare finta
di niente. Era un vento che scompigliava inesorabilmente il vecchio e creava il
nuovo. La parola d'ordine era: cambiamenti!
Cambiamenti fatti in nome del proletariato, degli operai
e dei contadini sfruttati dai padroni, dicevamo, e pensavamo.
Ma non ne sapevamo un beneamato cazzo di proletariato,
noi studenti, la maggior parte dei quali eravamo figli della classe media, di
quelli a cui urlavamo: Borghesi! Carogne! Rientrate nelle fogne!
Dimostrazione di ciò era il diverso atteggiamento della
polizia a seconda della composizione del corteo dei dimostranti.
Se si trattava di operai, la celere andava giù dura, con
cariche e caroselli di Campagnole (i fuoristrada Fiat di cui erano allora
dotati), da cui scendevano di corsa brandendo manganelli, e riempivano i
cellulari (che non servivano a telefonare, come oggi, ma erano furgoni dove
venivano stipati i fermati, utilizzati per trasportarli nelle Questure),
infischiandosene se qualche ruota o qualche paraurti, o qualche manganellata,
aveva rotto qualche gamba o qualche braccio; il maggior numero di lesioni era
alle dita delle mani, che veniva spontaneo alzare per proteggersi dalla
manganellata in arrivo. E i lacrimogeni venivano usati senza parsimonia.
In ogni caso, se era una dimostrazione di operai, non
c'era nemmeno l'ambulanza. Che poi le manifestazioni degli operai erano tutte
autorizzate, perché provvedevano i sindacati a fare quel che c'era da fare,
mentre le nostre non lo erano, se non altro perché non le chiedevamo, le
autorizzazioni.
Insomma, se si trattava di cortei studenteschi era tutta
un'altra roba rispetto a quelli degli operai, perché gli studenti avevano
genitori avvocati, ingegneri, professori, commercianti, ristoratori,
pellicciai, gente che in un modo o nell'altro conosceva Questori ed Onorevoli.
E allora, in quei casi, i celerini erano schierati con
gli scudi, e le cariche venivano ordinate solo perché eravamo noi ad attaccare,
e loro dovevano difendersi; altrimenti, l'obiettivo primo era solo respingerci,
o controllarci, ma possibilmente senza arrivare agli scontri; di caricare sui
cellulari gli elementi isolati, preferibilmente ragazzi e non ragazze, e
arrivavano anche ambulanze, spesso più di due. Così, gli scudi servivano -ma
non sempre ci riuscivano- a ripararsi dai sanpietrini che tiravamo ai pulotti.
Sì, ai poliziotti, che novantanove su cento erano del
sud, figli di quei proletari per i quali
dichiaravamo di protestare; ragazzi come noi, con infanzie trascorse a dir poco
duramente, che avevano lasciato famiglie e ragazze al paese, dove non c'era
lavoro, e l'unica soluzione per fuggire da una vita di stenti era arruolarsi
nei Carabinieri o in Polizia. Lo Stato, per accalappiarli, pagava un premio
di arruolamento: i primi tre mesi stipendio doppio!
Per tornare alla differenza tra manifestazioni di operai
e di studenti, nel secondo caso molto spesso le ambulanze servivano più per le
forze dell'ordine che per gli studenti. Roba da ridere, se non ci fosse stato
da piangere. Migliaia di cretini figli di benestanti, convinti di combattere
per operai, contadini, e per il proletariato in generale, favevano del male ai
figli dei proletari!
Senza contare che noi rossi eravamo convinti che i
celerini fossero dalla parte dei neri, o comunque più dalla parte loro che
dalla nostra, e forse era vero, forse no. Oggi, dopo decenni, credo che ci
fosse del buono nella rivolta dei giovani in generale, che volevamo, tutte e
due le parti, cambiare il mondo; solo
che volevamo le stesse cose ma le manifestavamo con azioni diverse, o forse
volevamo cose diverse ma le manifestavamo con le stesse azioni. Chissà!
Altre volte, invece, non ce n'era per nessuno. Superato
un certo limite, a vincere c'era solo la violenza, e gli scenari erano proprio
di guerra. Quando si sentiva la trombetta, voleva dire che entro un minuto le
camionette della Celere avrebbero cominciato a salire e scendere dai
marciapiedi, inseguendo ragazzi e ragazze con caschi da moto o con i fazzoletti
che coprivano le facce, che correvano, tra fumogeni e lacrimogeni, rossi e
gialli, che cercavamo di raccogliere e tirare indietro, magari insieme a qualche
cubetto di porfido, verso i celerini, e loro, incazzati neri, in tre,
manganellavano uno di noi, o, con gli idranti, ci spazzavano via facendoci
volare come fuscelli, e ricadere pesantemente a terra, provocando lividi,
escoriazioni, ma anche dolorose fratture. Insomma, violenza, violenza, e ancora
violenza.
Ma tutto ciò non faceva per me. Non erano più le
scattozzate tra ragazzi, o anche le risse tra militari in un locale, che
comunque avevano sempre un che di cavalleresco, chè scaturivano magari da un
commento ad una ragazza, o cose così. No. Era violenza. Premeditata, perché
uscivi da casa sapendo che avresti usato e subito assurda violenza, contro chi
e da chi, molto semplicemente, non la pensava come te. Un'idiozia immane.
Ma la suggestione di quei cortei, degli slogan scanditi
in coro, ritmati, quasi musicati, a volte con un sottofondo di tamburi che
davano la cadenza, come i bassi in un'orchestra, a sostenere le parole ed i
concetti, influenzavano, fino ad ipnotizzare, le menti giovani e stupide, e
addormentavano i freni inibitori, cancellavano le regole morali presenti nel
subconscio, quelle che -dice Freud- frenano l'istinto di distruzione di sé e
degli altri.
Però, pur concordando con gli obiettivi (anch'io volevo
cambiare il mondo) io credevo che le parole avrebbero potuto fare più e meglio.
Un frase che andava di moda (credo fosse del Che) era:
"La guerra è il gioco dei potenti, la guerriglia la necessità degli
oppressi".
Frase che io modificavo in "La guerra, che è il
gioco dei potenti, uccide gli oppressi, che però hanno armi invincibili: il
numero e le parole".
Provavo a fare breccia, con le mie idee, senza ottenere
risultati. L'unica concessione che mi venne fatta fu quella di istituire un
nostro servizio d'ordine, che tenesse a freno i nostri esagitati, e facesse
rispettare le regole imposte dalle Questure (tragitti concordati, no armi, no
bottiglie molotov, no spranghe travestite da aste di bandiere, etc), in modo
che le manifestazioni rimanessero tali, senza diventare sempre guerriglie.
Idea buona ma inattuabile, perché finiva sempre che
l'attività dei katanga (un nome che era già un programma) innescava le
prime zuffe, e a quel punto nessuno riconosceva più nessun altro, si menava/si
prendevano botte a/da quello più vicino, studente normale o studente katanga o
celerino, e nascevano risse da saloon, con la differenza che non volavano
cazzotti, ma sprangate, e peggio.
Un giorno di giugno, una ragazza di Architettura, poco
vestita, i piedini nudi nei sandali [chissà perché ricordo questo particolare],
dicendo: 'qui c'è esattamente quello che hai detto tu nell'Assemblea di ieri'
mi mise in mano un paio di fogli che contenevano testo ed accordi per chitarra
di una canzone, scritta dal grande Domenico Modugno (già famoso), che non era
riuscito a fare editare dalla sua casa discografica. Ne fui letteralmente
folgorato, tipo Paolo sulla via di Damasco! Si intitolava Ragazzo del Sud, e
cominciava così:
Per le strade di Torino polizia e malviventi,
sono tutti di una razza, sono figli degli stenti
Meridione, disperato, sole, mare e poesia,
o banditi per le strade, o arruolati in polizia!
Ragazzo del sud non ti rimane che andare in polizia
o come alternativa, una rapina a una gioielleria . . .
Erano esattamente i pensieri che avevo in testa da un po'
di tempo, e che avevo cercato di trasmettere ai compagni di lotta e di
guerriglie urbane, che però mi guardavano strano, i più buoni; gli altri mi
mandavano a cagare. Fino a quando non mi inventai il volantinaggio nelle
caserme.
Dovevamo trovare il modo di comunicare con polizia e
carabinieri, che erano proletari veri, figli di proletari veri, e fargli capire
che noi lottavamo per il proletariato, e quindi per loro.
Nel '77 il Der Spiegel fece una copertina con un piatto
di spaghetti sopra i quali era poggiata una P38, e sullo sfondo (o all'interno,
non ricordo bene) c'erano le foto del Giudice Occorsio, ucciso da piombo di
destra, e di Indro Montanelli, ferito da piombo di sinistra. Ma morti e feriti
non furono solo nomi eccellenti. C'è ne furono tanti anche tra di noi, sia
rossi che neri, e a volte anche tra neri e neri, e tra rossi e rossi. Perché la
violenza porta violenza, ed abbassa la forza dei freni inibitori. È scienza.